Il basket italiano: una storia di sponsor e media dagli echi leggendari

approfondimento su pallacanestro

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La pallacanestro in Italia travalica i confini della storia, del gesto tecnico eccelso, dell’agonismo, della tattica. Il basket è un fatto sociale totale: l’assunto teorico formulato dal sociologo francese Marcel Mauss sostiene che un fatto sociale totale possa coincidere con un accadimento in grado di influenzare una serie di fenomeni di natura simile, con conseguente coinvolgimento delle molteplici dinamiche in seno a una comunità. Il basket, in questo senso, non è solo una mera disciplina sportiva: è trasporto emotivo, è idea, è riflessione. E’ il prodotto di un set di sviluppi sociali, mediatici, economici capaci di renderlo unico nel suo genere nonostante le oggettive difficoltà di trovare uno spazio tutto suo, lontano e indipendente, almeno tra i confini italiani, dal fenomeno calcio-centrico.

La genesi della pallacanestro italiana: da Siena alla Grande Guerra

Carte alla mano, la palla a spicchi in Italia vide la luce agli albori del ventesimo secolo come sport marcatamente femminile. Nel 1907 fu la docente Ida Nomi Pesciolini della società sportiva Mens Sana Siena a diffondere la disciplina a livello locale. I concetti chiave della disciplina – ideata dal professore americano di ginnastica James Naismith – si diffusero a macchia d’olio. Le atrocità del primo conflitto mondiale rafforzano poi la crescita di un movimento che venne importato dagli americani nel corso della Grande Guerra.

Successivamente alla disfatta di Caporetto, i soldati americani soccorsero il decimato esercito tricolore e alleviarono i dolori di una bruciante sconfitta spiegando loro le regole di un gioco, inizialmente circoscritto a caserme e trincee. Con le cronache della Gazzetta dello Sport, il basket divenne disciplina professionistica a tutti gli effetti con l’istituzione della Federazione italiana del basketball, datata 1922. La cultura cestistica cominciò a fiorire laddove le trasformazioni socio-economiche post conflitto agivano con un grado di incidenza maggiore.

Sponsor-pubblicità-visibilità: il trittico della strada verso il successo

Palla a spicchi-pubblicità-mezzi d’informazione: un trinomio affermato, un legame consolidato e radicato con successo nella società italiana degli anni Cinquanta del Novecento, quella che si avviava alla fase dei consumi di massa. Gli anni del miracolo economico, il cui epicentro di ricchezza fu il triumvirato industriale Milano-Genova-Torino, garantirono un impetuoso e rapido sviluppo delle industrie che trasformarono il modus vivendi dei cittadini, l’estetica urbana e i paesaggi limitrofi. Tra gli indici di un diffuso benessere spiccavano la crescita dell’industria automobilistica e soprattutto l’aumento dei consumi legati agli elettrodomestici che segneranno un’epoca nella storia sportiva e commerciale del basket italiano. Il calcio deteneva ancora il monopolio in termini di attrattività e visibilità indiscusso ma la pallacanestro riuscì a ritagliarsi uno spazio importante tra le passioni degli italiani, imponendosi progressivamente come sport popolare.

Una crescita a piccoli passi ma costante: le società cestistiche si trasformarono in aziende sponsorizzate e pubblicizzate dalle piccole e medie imprese prima e dalle multinazionali poi, consapevoli del ruolo che andava configurandosi per la pallacanestro: quello di strumento in grado stimolare il consumo di beni generato dallo spettacolo in campo e dai risultati conseguiti sul parquet dal quintetto. Con l’avvento delle sponsorizzazioni e delle pubblicità, il basket italiano si è imposto sempre più come vettore in grado stimolare e persuadere i consumatori all’acquisto di prodotti apparentemente svincolati dall’attività agonistica. Una strategia chiara quella dei club cestistici: sfruttare la componente emotiva (comune denominatore sia nello sport che nell’ecosistema pubblicitario) per aumentare le vendite di un prodotto con conseguente aumento di notorietà del marchio dell’azienda e del club del quale ricopre la carica di main sponsor.

Centrifuga vincente: l’Ignis Varese

Il modello di riferimento nel binomio pubblicità-basket, avveniristico in rapporto al contesto storico, apparteneva senza dubbio alla Pallacanestro Varese. Il legame pubblicitario con la Ignis, azienda produttrice di elettrodomestici e presieduta dallo storico imprenditore Giovanni Borghi, fu una strategia societaria di assoluto rilievo e con più di uno sguardo al futuro. Il patron della Ignis Varese, pluricampione d’Italia ed Europa, fu il simbolo della ricostruzione economica dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale: Borghi identificò nella pallacanestro la principale vetrina sportiva, alternativa al calcio, dai costi ridotti e contenuti nella quale primeggiare e attraverso la quale crescere sotto la voce introiti.

Il progetto di leadership di Borghi, primeggiare tanto in campo imprenditoriale quanto in quello sportivo, consegnò Varese alla leggenda del basket italiano: tra il 1956 e il 1975 la Ignis vinse 7 scudetti, 4 coppe Italia, 4 coppe dei campioni, 1 coppa coppe e 3 coppe intercontinentali.

Le scarpette rosse e la Simmenthal: Milano da…leggenda

Se l’universo Varese coincideva già allora con gli attuali dettami dello sport marketing, la genesi della modernizzazione del basket in chiave imprenditoriale appartenne in via esclusiva alla principale rivale di Borghi, l’Olimpia Milano. Il sodalizio meneghino diede avvio alla prima vera esperienza di sport commerciale e manageriale: il patron Adolfo Bogoncelli ordinò alla squadra di indossare le Superga per le partite ufficiali. L’obiettivo? Etichettare l’Olimpia con un elemento caratteristico che potesse rendere riconoscibile il marchio Olimpia nel segno dell’unicità . Non più le Superga bianche quindi, sostituite da un modello interamente rosso: una produzione eccezionale della stessa Superga che consegnò duecento paia in via esclusiva al club milanese. Il colore delle scarpe da gioco non solo avviava un legame identitario forte tra indumento di gioco e colori sociali del club ma divenne un imponente veicolo pubblicitario per l’azienda torinese. Nacque così il mito delle “scarpette rosse”, un’etichetta leggendaria dal valore inestimabile nella storia dell’Olimpia Milano.

I biancorossi meneghini ebbero anche un’altra “esclusiva” nella storia del basket italiano: furono la prima società di pallacanestro ad associare il proprio nome sociale a quello di uno sponsor, Borletti, azienda produttrice di macchine da cucire. La svolta per l’Olimpia fu però il legame commerciale con la Simmenthal, celebre carne in scatola. Gli introiti derivanti dallo sponsor consentirono ai vertici societari l’ingaggio del primo giocatore americano a sbarcare in Italia – Bill Bradley, nel 1966 –  con conseguente aumento dell’eco mediatico e di visibilità che derivò dalla nuova denominazione del club. L’Olimpia Milano divenne Simmenthal Milano tanto che un’indagine di mercato dell’epoca associava il nome della carne in scatola più alle gesta sul parquet della squadra meneghina che al prodotto commerciale stesso. Un binomio durato la bellezza di 17 stagioni che rese immortale e soprattutto leggendaria quell’Olimpia: 10 scudetti cuciti sul petto, una coppa Italia, due coppe delle coppe ma soprattutto la coppa dei campioni del 1966.

Pallacanestro e tifo: tra nascita dei palasport e fenomeno ultras

Al tramonto del secondo conflitto mondiale, il basket non si schiodava però dall’essere una realtà sportiva di secondo piano. Un evento mondano durante il quale forgiare il miglior abito domenicale ma ancora denso di amatorialità. Calcio, ciclismo e pugilato richiamavano le attenzioni del grande pubblico e della stampa, garantendo un imponente ritorno economico e di immagine. In particolar modo, il termine di paragone con la Serie A pallonara apriva una miriade di fronti di discussione: dagli ingaggi degli addetti ai lavori alle modalità di promozione del singolo evento; dalle sponsorizzazioni alla tipologia di pubblici da intercettare con il fine ultimo di ampliare il bacino d’utenza. La mancanza di impianti indoor per la disputa dei match determinava un fisiologico calo d’interesse per la disciplina. Un evidente disinteresse del grande pubblico che etichettava la pallacanestro come uno sport per pochi intimi, snobbato e dall’esiguo appeal.

Adeguarsi ai tempi fu il passo decisivo per una crescita esponenziale della pallacanestro e la modernizzazione cestistica passò inevitabilmente dalla costruzione di impianti idonei per una specifica tipologia di entertainment in salsa sportiva. Nel 1960, le Olimpiadi di Roma favorirono una sorta di “rinascimento ex novo” dei palazzetti indoor in Italia, consentendo alla Federbasket di colmare il gap strutturale con le principali leghe straniere. Tra gli anni Sessanta e Ottanta il basket riuscì a ricucire il gap con il calcio, potenziando il proprio bacino: la pallacanestro divenne il secondo sport più seguito in Italia superando la soglia dei dieci milioni di appassionati. La contaminazione con il pallone fu altrettanto determinante anche nella genesi del tifo: il fenomeno ultras nei palazzetti italiani vide la luce a Bologna, quando nel 1970 la Fossa dei Leoni della Fortitudo divenne il primo esempio documentato di tifoseria organizzata nella storia del basket italiano, ricalcando le orme dell’omonimo gruppo ultras del Milan.

Pallacanestro e carta stampata: Aldo Giordani

La diffusione della pallacanestro in Italia, intesa come ricerca della visibilità mediatica, assunse i connotati dell’impresa titanica. Il calcio deteneva un’egemonia totale, forte del legame a doppio filo tra società sportive e gruppi imprenditoriali di spicco. Nonostante un divario incolmabile, la palla a spicchi riuscì a ritagliarsi diversi spazi, sulla carta stampata, a partire dagli anni Trenta.

La rivista “A Voi” fu il primo prodotto editoriale italiano specializzato sulla pallacanestro. Da quel momento il movimento visse una fase di crescente dilatazione tra gli old media: con la nascita delle Fanzine – riviste ad hoc gestite dai club o dai gruppi ultras – si ebbe un’impennata del fenomeno pallacanestro in Italia, con inserti e supplementi che andavano a completare l’offerta delle principali riviste specializzate: “I giganti del basket” e “Superbasket”, il vangelo cestistico fondato nel 1978 dalla voce, penna per eccellenza e deus ex-machina della pallacanestro italiana, Aldo Giordani. Celebri i suoi resoconti domenicali, con tabellini e commenti sugli accadimenti cestistici in Italia ed Europa più ampi approfondimenti relativi all’eldorado dell’NBA.

Pallacanestro e televisione: la popolarità al potere

L’avvento della televisione in Italia, datato 1954, diede ampio spazio agli sport di squadra. Anche nel piccolo schermo il basket ebbe oggettive difficoltà di imporsi nei risicati palinsesti degli anni ’50, riuscendo a emergere solo durante gli anni Ottanta, gli anni d’oro della pallacanestro italiana. Il fruttuoso sodalizio che legò la Rai e le tv commerciali con il basket favorì un incremento di interesse per la palla a spicchi. Le gare di A1 e A2, unite agli impegni in Europa delle più grandi compagini italiane, venivano trasmessi in diretta o in differita. Trasmissioni quali “La Domenica Sportiva” e “Domenica Sprint” divennero invece il teatro della competenza e lungimiranza di Giordani che, con successo, portò il basket sul piccolo schermo favorendo un incremento di popolarità del basket stesso. L’ampia conoscenza della pallacanestro consentì al giornalista meneghino di utilizzare con identica efficacia due registri linguistici completamente diversi nel racconto dei match cestistici: dai tecnicismi, anch’essi importanti dal gioco made in Usa alla telecronaca semplice e lineare.

Il picco di audience televisiva, unitamente al sold out al palazzetto, si ebbe con la finale scudetto 1983 tra il Banco Roma e il Billy Milano. L’incrocio si caricò di significati non solo cestistici ma anche sociali: la grande sfida tra la capitale politica e quella economica del Belpaese portò al PalaEur capitolino 17mila persone e sulla scia di un entusiasmo contagioso, la nazionale mise le mani sull’alloro europeo, trionfando poco dopo a Nantes. Con gli anni Novanta, le Pay-tv presero il sopravvento dando avvio alla stagione dell’infotainment: la tv a pagamento costruiva un contenitore secondario – fatto di rubriche di approfondimento, analisi tecniche e statistiche, interviste nel pre e post gara – che sovrastava quello principale, la partita. Da quel momento il pubblico della pallacanestro divenne più elitario che popolare fino all’avvento di internet che ha rivoluzionato fino ai giorni nostri le modalità di fruzione del prodotto basket.

Un futuro in chiaroscuro

La pallacanestro italiana vive oggi un bipolarismo esasperato tra giorni bui e nuova gloria: auto retrocessioni di grandi piazze, fallimenti a stagione in corso oltre a oggettive difficoltà economiche, gestionali e comunicative in giro per l’Italia. Non mancano però le note liete: il successo in Champions League targato Virtus Bologna nel 2019, la prima volta di Sassari e Venezia in Europe Cup e un ritrovato smalto dell’Olimpia Milano nell’Europa che conta rappresentano, se non altro, un buon biglietto da visita per tornare a considerare il basket un fatto sociale totale.

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Pubblicato da Alessandro Fracassi

Nato in quel di Sassari nel 1992, cresciuto nel segno della leadership, del temperamento e della passione per i tackle del Guv'nor Paul Ince. Aspirante giornalista sportivo, studio giornalismo all'Università "La Sapienza" di Roma. Calcio e Basket le linee guida dell'amore incondizionato verso lo sport, ossessionato dagli amarcord, dal vintage e dai Guerin Sportivo d'annata, vivo anche di musica rock e dei film di Cronenberg. Citazione preferita: "en mi barrio aprendí a no perder".