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La Quinta del Buitre nasce quando la Spagna riesce a liberarsi dai tentacoli opprimenti della dittatura franchista. Un calcio alla libertà, all’estro e alla fantasia, contro ogni restrizione ideologica. In un luogo preciso, in cui leggenda e ricordi si fondono.
Paseo de la Castellana, nord di Madrid. Percorrendo il celebre viale madrileño, è fin troppo semplice rimanere estasiati dall’immensità e dal carico di leggenda offerto dallo stadio Santiago Bernabéu. Chiudendo gli occhi però, quando il rumore del traffico cittadino domina il barrio Chamartín nelle ore di punta, il fascino del sentimiento blanco ti trasporta ovunque. Qualche chilometro più in là, fino alla fermata “Begoña” della metropolitana, linea 10. Il panorama è dominato dai grattacieli della CTBA (Cuatro Torres Business Area) simboli incontrastati dell’economia urbana e nazionale.
Proprio qui, 14 anni fa, sorgeva la vecchia “ciudad polideportiva” del Real Madrid poi demolita e sostituita dalla avveniristica Valdebebas. Al civico 259 del Paseo, erano di casa personalità forti (Arvylas Sabonis) e talento sconfinato (Drazen Petrovic). Non solo il basket al centro della scena: l’Occhio Sportivo riavvolge la storia fino alla Madrid degli anni ’80. La ciudad polideportiva merengue diede i natali a una delle generazioni calcistiche più influenti della storia, la “Quinta del Buitre”.
“La Quinta del Buitre”: l’etimologia della Leyenda.
Manuel Sanchís, Martín Vázquez, Michel González, Miguel Pardeza ed Emilio Butragueño. Sono i 5 prospetti che la Castilla, la seconda squadra blanca, svezza e prepara a vestire la maglia calcistica più importante della storia del calcio. Con il madridismo e la città nel sangue oltre che nella carta d’identità (eccetto Pardeza, originario di Huelva) sono loro i membri della leva. Quinta infatti, in spagnolo, presenta un duplice significato: è il femminile dell’aggettivo numerale cardinale corrispondente al numero cinco (cinque) ma si espande ad altre interpretazioni.
Una di queste è leva, con l’aggiunta di un “medievale” coorte. Una leva con a capo il giocatore più letale della cantera merengue, l’incubo delle defensas avversarie: il delantero Emilio Butragueño. Soprannominato “l’avvoltoio” (in spagnolo, buitre) per la sua capacità di trasformare in gol ogni azione di gioco, l’epiteto della “quinta del buitre” è un gioco di assonanza linguistica tra il rapace e l’attaccante iberico. Al servizio del re dell’area di rigore avversaria, i suoi quattro fedelissimi. In difesa, il roccioso centrale (o all’occorrenza mediano) Sanchís. A centrocampo l’estro di Míchel sull’out di destra, la genialità di Martin Vázquez sulla trequarti e l’imprevedibilità della seconda punta Pardeza.
“La Quinta del Buitre”: specializzata in remuntadas. Anderlecht e Moenchengladbach desaparecidas.
Tra il 1981 e il 1984 la Quinta si inserisce in pianta stabile nella prima squadra merengue. Il progetto madridista, con i giovani della Castilla fulcri inamovibili, ha come obiettivo principale quello di tornare a riempire la bacheca di Chamartín: il titolo di campione di Spagna manca dal 1980. L’egemonia basco-catalana (Real Sociedad, Athletic Bilbao e Barcellona) lascia a secco la camiseta blanca da troppe stagioni. È necessario invertire la rotta.
L’inserimento in squadra della Quinta è avallato dalla leggenda merengue Alfredo Di Stefano, allenatore del conjunto blanco. Fuoriclasse sul terreno di gioco e abile nello scovare talenti prossimi all’ascesa, la leggenda madridista costruisce un Real, quello della stagione 1983/84, destinato al mito. Un mix di gioventù ed esperienza che vede Paco Buyo tra i pali e il duo Chendo-Camacho sulla linea difensiva. Gallego e Del Bosque a centrocampo a far filtro e un attacco composto da autentici mostri sacri dell’universo pallonaro. Oltre a Santillana e Juanito – per il quale il Bernabéu intona un tributo canoro al 7′ di ogni gara casalinga, come il numero di maglia del delantero – si aggiunge Jorge Valdano, prelevato dal Saragozza.
Se nella prima stagione i risultati tardano ad arrivare, tra il 1984 e il 1986 il Real mette le mani sulle prime Coppe Uefa della storia e, nell’anno del mondiale messicano, si laurea campione di Spagna dopo 6 stagioni di vacche magre. Successi, quelli in Europa, all’insegna di rimonte passate alla storia. Imprese sportive fuori da ogni logica. Nel 1984/85 agli ottavi di finale, i belgi dell’Anderlecht già pregustano il passaggio del turno. Il successo per 3-0 nel match di andata al “Constant Vanden Stock” lascia tranquilli i campioni fiamminghi guidati in panchina da Paul Van Himst. L’obiettivo minimo non è impossibile: segnare almeno un gol al Bernabéu per mettere in ghiaccio la qualificazione.
E arriva, con Per Friemann. Ma l’Anderlecht non ha fatto i conti con la bolgia dei 95.000 di Chamartín e con Butragueño, autore di una tripletta. All’hat-trick della punta blanca, seguono una doppietta di Valdano e il sigillo di Sanchís che mandano in estasi e soprattutto ai quarti di finale le merengues con il un 6-1 finale. È l’inizio della gloria. La stagione successiva tocca al Borussia Moenchengladbach pagare a carissimo prezzo l’epicità blanca. In terra teutonica i padroni di casa umiliano il Real con un 5-1 che non lascia spazio a ulteriori commenti. Il match di ritorno al Bernabéu sembra una pura formalità per il sodalizio teutonico.
Le Merengues, oltre ad essere con le spalle al muro, sono anche in ginocchio: le assenze di Hugo Sánchez, Gordillo, Sanchís e Chendo sembrano sentenziare un’eliminazione ormai alle porte. Ma è proprio in occasioni simili che l’orgullo merengue emerge in tutta la sua grandezza. Con una doppietta di Valdano e di Santillana (gol decisivo al 90′) il Real sigla il poker della leggenda, spazzando via critiche e avversario.
“La Quinta del Buitre”: i “clásicos” continentali con l’Inter tra ricorsi e sfide infinite.
Se il Real Madrid della Quinta è entrato con entrambi i piedi nella leggenda, lo deve anche alle epiche battaglie, calcistiche e legali, contro l’Inter in Coppa Uefa.
Primavera 1985: San Siro spaventa i giganti blancos. I nerazzurri guidati da Ilario Castagner vincono la semifinale d’andata per 2 reti a 0. Liam Brady e Spillo Altobelli complicano la vita a Míchel e compagni. Ma per il Real, le rimonte sono la conferma di una forza del collettivo senza eguali: una doppietta di Santillana e un indiavolato Míchel consegnano al Madrid la finale, poi vinta sugli ungheresi del Videoton.
Ma il match del Bernabéu si tinge di giallo: Beppe Bergomi nel corso della prima frazione di gioco, viene colpito da una biglia e rimane ferito a terra. L’avvocato nerazzurro, Peppino Prisco, presenta ricorso alla Uefa per ottenere il 2-0 a tavolino. Per l’Inter significherebbe finale, la prima in Uefa. Nulla da fare: la videocassetta utilizzata dai nerazzurri come prova non viene presa nemmeno in considerazione dai vertici del calcio europeo. Il 3-0 viene omologato e il Real accede alla finale. Ma l’appuntamento tra le due squadre si ripeterà, qualche mese dopo, nel 1986.
Ancora una volta l’Inter. Ancora una volta in semifinale. Ancora una volta a San Siro, i nerazzurri di Mario Corso annientano il Madrid. Marco Tardelli, giocatore dato sul viale del tramonto dalla stampa sportiva italiana, sigla una doppietta e delizia la platea nerazzurra con giocate d’alta scuola. Valdano riapre i giochi per la qualificazione a 3′ dalla fine ma un goffo autogol di Salguero allo scadere mette l’Inter al sicuro e con il 3-1 in tasca.
Match di ritorno, ancora al Bernabéu, tra una bolgia infernale. Nei 90′ regolamentari il Real pareggia il 3-1 del primo atto milanese. Si decide tutto ai supplementari. L’Inter non ne ha più. Liam Brady soffre Michel e Santillana, con il vizio dei gol decisivi, mette a segno la doppietta dell’apoteosi blanca. È ancora finale, stavolta con i tedeschi del Colonia. È ancora trionfo, il secondo consecutivo in Coppa Uefa.
“La Quinta del Buitre”: learning to fly con il grande rimpianto.
I Pink Floyd, nel 1987, deliziano l’esigente pubblico musicale con il singolo “Learning to fly”. La Quinta ha ormai imparato a volare da tempo, spinta da un talento sconfinato e da un pubblico, quello del Bernabéu, che funge da dodicesimo uomo in campo.
2 Coppe Uefa, 5 scudetti consecutivi dal 1986 al 1990, 1 Coppa de la Liga, 1 Coppa del Re e 3 Supercoppe nazionali. Un’imbattibilità casalinga durata ben 59 incontri (dalla 10° giornata del torneo 1987/88 alla 7° gara del 1990/91).103 reti all’attivo nell’anno del 25° scudetto (record battuto dallo stesso Real nel 2012) quelle messe a segno per suggellare le nozze d’argento merengue con la Liga (1990).
Tra record e numeri impressionanti, ciò che balza all’occhio è la mancanza del sigillo. Della Coppa che meglio rappresenta la storia blanca: la Coppa dei Campioni. L’unico cruccio della Quinta del Buitre è proprio quello di aver sfiorato la finale per il sogno della séptima senza mai raggiungere l’agognato trionfo. La semifinale, raggiunta per 3 anni consecutivamente, rappresenta il massimo risultato della Quinta nell’Europa dei grandi. Nel 1988 il Bayern vince 4-1 in Baviera l’andata scongiurando i propositi di rimonta madridista (solo 1-0 merengue al Bernabéu). L’anno successivo l’eliminazione arriva per mano del PSV Eindhoven (1-1, 0-0 in Olanda) e nel 1989 il Milan di Sacchi ridicolizza il conjunto blanco con una manita sotto la pioggia di San Siro che, ancora oggi, fa rumore.
Se in Europa è proprio il Milan degli olandesi Van Basten, Gullit e Rijkaard a dettare legge con un calcio moderno fatto di pressing, linee corte e sistematica trappola del fuorigioco, il Real deve abdicare tra i confini nazionali. Il Barcellona di Johann Cruijff inaugura il ciclo del dream team, la squadra dei sogni, che andrà a vincere la prima Champions League a Wembley nel 1992. Per la Quinta il viale del tramonto è imboccato nell’estate del 1990: Mártin Vázquez lascia Madrid e si trasferisce in Italia, al Torino. Míchel avverte i primi acciacchi di una carriera costellate di sole magie pallonare.
Emilio Butragueño comincia a capire che può essere avvoltoio non solo in campo ma anche dietro la scrivania e con un ruolo dirigenziale di spicco. L’unico che stringe i denti durante l’egemonia barcelonista è Sanchís che non solo lega al Real Madrid tutta la sua carriera calcistica ma sarà anche l’unico della Quinta a vincere, nel 1998, la Champions League ad Amsterdam contro la Juventus.
Ancora oggi risuonano, nel viejo Bernabéu, gli echi della leva dell’avvoltoio. Al coro degli Ultras Sur (tifo organizzato blanco) “así, así, así gana, así gana, el Madrid, el Madrid” i ricordi divampano e ricostruiscono nitidamente l’atmosfera de los años 80. “Così, così, così vince, così vince, il Real Madrid“. È il dna merengue. È il sentimento blanco che ancora oggi risuona al Paseo de la Castellana.