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Quella di Michele Rogliani potrebbe essere la classica storia di un ragazzo che tra gli anni ’70 e ’80 voleva diventare calciatore, se non fosse che sulla sua strada ha incontrato un nemico ben più terribile di qualunque avversario, l’eroina.
Il nuovo Pablito
Rogliani, nato a Venezia nel 1961, era una giovane promessa con il sogno di emergere nel calcio. Le sue qualità non passarono inosservate agli occhi degli esperti, in particolare di una squadra. Il Mestrina infatti si convinse di puntare su di lui. Del ragazzo si parlava come uno dei futuri talenti del calcio italiano, il Padova si accorse di lui aggregandolo alla squadra allievi. Qui per Rogliani arrivò il momento del debutto in prima squadra, a sedici anni, contro il Forlì in Coppa Italia Semiprofessionisti, l’odierna competizione di C. Subito dopo arrivò anche l’esordio in campionato contro Spezia e Piacenza. Rogliani faceva parte di un bel gruppo insieme ad altri calciatori come Carlo Perrone, Massimo Bigotto e Dario Sanguin, e un gruppo di giovani talentuosi.
Quando il presidente del Padova, Giusy Farina, vendette il club per comprare il Lanerossi Vicenza, Rogliani e gli altri giovani talenti furono trasferiti a Vicenza con il giocatore che fu inserito nella primavera. Le sue prestazioni con diciassette reti segnate gli valsero l’importante soprannome di “Paolo Rossi”. Nel 1980, durante la partita contro la Pistoiese, entrò nel finale di secondo tempo, debuttando in B. Arrivato il debutto in cadetteria, Rogliani non riusciva a mantenere la pressione, per questo fu ceduto in prestito al Casale. Questo per lui fu l’inizio della fine.
Buio totale
In Piemonte Rogliani entrò in contatto, forse perché deluso dal fatto di non essere riuscito a rispettare le attese o forse per paura di non riuscire a emergere completamente, con quella cosa che lo avrebbe portato alla morte, ovvero l’eroina. Iniziò ad essere fuori condizione non riuscendo ad allenarsi con regolarità, fu quindi prestato l’anno successivo al Monselice, in C2. Non riuscendo ad incidere, le successive esperienze furono con Muranese in Promozione e Club Vigna in Seconda Categoria. Dopo si ritirò dal calcio, decidendo di vincere una partita ben più importante, quella contro la tossicodipendenza. Entrato in una comunità di recupero, capì che non stava ottenendo i frutti sperati. Rogliani decise quindi di chiedere aiuto alla sua famiglia, venendo ospitato in casa con l’intento di tornare successivamente in comunità.
L’ormai ex giocatore tentò, d’accordo con i suoi genitori e le sorelle, un metodo per resistere al richiamo della droga, quello di essere legato con delle catene a un termosifone. Rogliani urlò durante il giorno durante le crisi di astinenza ma il 27 febbraio del 1985 accadde la tragedia. Una sigaretta spenta male innescò un incendio, il giocatore urlò, i familiari non si accorsero di nulla fin quando non videro del fumo uscire dalla sua camera. Presi dal panico non trovarono le chiavi della camera e, quando arrivarono i pompieri, i suoi polmoni erano stati invasi dal fumo. Rogliani morì durante il trasporto in ospedale. Fu un’autentica tragedia: non solo una carriera, ma soprattutto una vita spezzata da un nemico che negli anni ’80 ha fatto molte vittime e che purtroppo continua a fare tuttora.
Immagine copertina tratta da gazzetta.it.