Milan-Sampdoria 1990: la genesi dello scudetto blucerchiato

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La Sampdoria, 28 anni fa, indossò i colori della sera. Nei tramonti di Genova, tra l’ombra della Lanterna e le strettissime scorciatoie che conducono a Piazza de Ferrari, nacque la Samp tricolore di Boskov. Un tripudio di colori in cui blu, nero, rosso e bianco si fondevano in uno spettacolo cromatico da brividi. Lo stesso che, la sera del 28 ottobre 1990, dominò la scena a Sampierdarena.

Oltre ai colori, il vento del tardo pomeriggio genovese fece da incontrastato padrone. Soffiò forte, così come l’irruenza delle onde che sbatterono sulle rocce di Pegli. Ma anche le notizie che giunsero da Milano ebbero un impatto decisamente positivo sull’umore di un marinaio. Aveva appena spento la radio, sintonizzata su San Siro.

Sensazioni e consapevolezza

Tra le banchine del vecchio porto, il Baciccia sciolse la folta chioma bianca, lasciandosi andare alla contemplazione più profonda di quegli attimi. “Genovesina” (la storica pipa di legno, di consumo prevalentemente portuale) fumante tra le labbra, berretto blu sul capo come di consueto e petto gonfio di orgoglio. Sampdoria vittoriosa alla scala del calcio. Milan campione del mondo sulle ginocchia.

Era agli sgoccioli il ruolo di secondo piano dei blucerchiati sul palcoscenico della Serie A. Niente più ruoli da comparse o da attori, comunque validi, ma non protagonisti. Era arrivato il momento di indossare l’abito della maturità e della consapevolezza. Quella sera, la Genova blucerchiata si scoprì bellissima. Una regina sotto i riflettori, sulle note dei New Trolls e sulle parole della coinvolgente “Lettera da Amsterdam”. Le rughe, illuminate da un sole in fase calante, convinsero quel marinaio. Era giunto il momento di salpare e guidare la Samp verso orizzonti nuovi. Inesplorati fino a quel momento.

Semplicità al potere: la Sampdoria di Vujadin Boskov

“Non ho bisogno di fare la dieta, perché quando entro a Marassi perdo tre chili”. Vujadin Boskov, l’artefice di un miracolo provinciale oggi impossibile nell’ecosistema pallonaro globalizzato, ne perse circa il doppio quando la maestosità della Scala del calcio meneghino accolse, con fare ostile, la sua Samp nel limbo delle trasferte milanesi. Bilance a parte, San Siro non incuteva alcun timore. Al contrario, esaltava le qualità di un gruppo di uomini che busserà, di lì a poco, le porte del paradiso. Quello tricolore. L’arma più affilata, tagliente della Sampdoria stava tutta nella semplicità del suo tecnico. Vujadin Boskov, da Novi Sad (Serbia settentrionale) è figura quasi mitologica nell’olimpo pallonaro, impresso nella memoria calcistica collettiva più per le sue massime davanti a un microfono e una telecamera che per i risultati – imponenti – raggiunti in carriera.

Una semplicità divisa a metà, tra rettangolo verde e vita quotidiana. Leggerezza mista a ironia per affrontare avversari di qualsiasi natura. Differenze sottili, tra autostima trasmessa alla squadra a dosi infinitesimali ed equilibri di spogliatoio da mantenere saldi, come le marcature a uomo. Anche se di fronte si presentava una fuoriserie qual era Ruud Gullit, il mastino della squadra Pietro Vierchowod poteva annullarlo tatticamente con strategie di ovvia applicazione: “infilalo nel taschino”. Un uomo d’altri tempi, amante della filosofia. Nelle crepe di un fallimento, vedeva le infiltrazioni della luce. Perché “dopo pioggia viene sole”.

Tramontate stelle, all’alba vincerò

La Samp dei miracoli nacque al minuto 68 di un’uggiosa domenica meneghina. San Siro e il Milan guardavano tutti dall’alto del primato. Priva di Vialli e Vierchowod, la Doria non potè far altro che organizzare il suo pomeriggio a base di fiammate e contropiedi. Il muro doriano però resse l’onda d’urto rossonera. Gianluca Pagliuca strozzò in gola l’urlo del gol a Van Basten, Evani, Ancelotti e compagnia cantante con voli e colpi di reni che poco o nulla avevano da invidiare alla coreografia del lago dei cigni di Piotr Ilic Cajkovskij.

A 20’ dalla fine il coup de theatre: il triangolo Katanec-Lombardo-Cerezo (terminale offensivo) mandò la Samp in visibilio e il spinse il diavolo all’inferno. “Gli allenatori sono come i cantanti lirici. Sono molti e anche bravi, ma soltanto due o tre possono cantare alla Scala di Milano”. Boskov quella domenica intonò il “vincerò” del “Nessun dorma”, celebre romanza dell’opera lirica “Turandot” di Giacomo Puccini. More than a feeling. Visionario. Profetico.

L’anima blucerchiata: Toninho Cerezo

Fisico longilineo, capello nero, baffo come tratto caratteristico e identitario. Toninho Cerezo fu per la Sampdoria una guida spirituale in misura maggiore rispetto al talento sconfinato dei gemelli del gol Vialli-Mancini. Una figura che cambiò i destini di un ambiente poco incline alla vittoria, un uomo che visse nei 6 anni in Liguria una seconda vita calcistica. Il marchio impresso alla serata di San Siro dell’ottobre ’90 rappresentò solo uno degli innumerevoli fotogrammi che esaltarono un legame, quello tra il brasiliano e i colori blucerchiati, inquadrato in un frame dal retrogusto leggendario.

La luna di miele tra la Genova doriana e mediano carioca nacque nell’estate del 1986. Roma era la sua Belo Horizonte. 3 anni di amore puro con la città e la tifoseria, molto vicina tanto dal punto di vista cromatico quanto da quello passionale alla torcida verdeoro. Fu la carta d’identità, per volere del presidente giallorosso Dino Viola, il motivo della rottura tra le consuete passeggiate di Toninho a Campo de’ fiori e il suo viscerale legame con la Capitale. Chi scommise su un 31enne tutta esperienza e sostanza fu proprio la Sampdoria. Cerezo vestì il blucerchiato quasi come fosse una seconda pelle. Un legame profondo, ben oltre i colori di una maglia da difendere. Sarà proprio lui ad aprire, nel maggio del 1991, le porte del paradiso tricolore alla Samp.

Another brick in the wall

Lo scudetto della Sampdoria, ultima impresa di una provinciale del nostro calcio, fu il risultato di una molteplicità di momenti chiave, impressi nella memoria collettiva e nella storia di uno sport contenitore delle emozioni più profonde dell’essere umano. La Samp tricolore nacque a Milano, sponda rossonera. Marinai genovesi stilizzati in fuga e diavoli all’inseguimento, in continua staffetta con i dirimpettai biscioni nerazzurri. Le favole calcistiche non furono allora e non sono oggi dominate da mostri spaventosi ma da un corollario di simboli di facile intuizione e da polpacci combattivi. I più stabili e regolari furono proprio quelli blucerchiati. I muscoli di Mancini & co. passeggiarono a Napoli, strappando dalla maglia azzurra lo scudetto e strapazzando le tre grandi del calcio italiano a Marassi.

La seria ipoteca sul tricolore arrivò contro il biscione interista, il 5 maggio 1991. Proprio nello stadio in cui il Baciccia, in quel tramonto autunnale di fine ottobre, decise di affrontare nuovi orizzonti indossando i colori della sera. L’Inter abdicò tra le mura amiche. Dossena e Vialli indicarono la retta via. Morale della favola: i marinai sanno quando le acque sono navigabili. Il Baciccia si apprestò a tagliare per primo il traguardo tricolore.

Knocking on scudetto’s door

“Oh my life is changing everyday, in every possible way

And though my dreams, it’s never quite as it seems

Never quite as it seems, I know I felt like this before

But now I’m feeling it even more”

I Cranberries, celebre gruppo improntato sulle note di un alternative rock a cavallo tra anni ’80 e ‘90, raccontarono a loro insaputa l’ultima impresa tricolore di una provinciale nel Bel Paese pallonaro. Il singolo “dreams” tanto disse sul miracolo sportivo compiuto dalla Sampdoria. Nella vita blucerchiata, gli orizzonti cambiavano. Ogni giorno, in ogni modo possibile. Nonostante i sogni e le aspettative immateriali, la vita calcistica doriana non fu mai piatta: dal back-to-back in coppa Italia del 1988-1989 fino alla cocente delusione di Berna in coppa delle coppe, con la sconfitta in finale con il Barcellona. La rivincita arrivò 12 mesi dopo. Belgi dell’Anderlecht in ginocchio; primo trionfo per Genova in Europa. La Samp si sentiva forte ma arrivata al culmine di un ciclo vincente che necessitava di un riconoscimento ancora più grande. Abbattendo il muro dei limiti.

L’apoteosi arrivò nel pomeriggio del 19 maggio 1991. Cerezo, Dossena e Vialli annichilirono il Lecce, consegnando la Samp alla leggenda. Un trionfo emotivo-passionale paragonabile all’estasi di Santa Teresa, celebre scultura del Bernini. La Doria e la santa d’Avila, un binomio all’insegna dell’apoteosi. L’una, con lo sguardo rivolto verso l’amore divino. L’altra, con lo sguardo socchiuso dalle lacrime – quelle del compianto presidente Enrico Mantovani – ma rivolto verso l’eden scudettato. L’arte e il calcio. Due universi paralleli. Emozioni intrecciate. Inimitabili. Come quella Samp. Solo la sfortuna tolse a Genova il trionfo nell’Europa dei grandi. Ma questa, è un’altra storia. E ve la racconteremo.

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Pubblicato da Alessandro Fracassi

Nato in quel di Sassari nel 1992, cresciuto nel segno della leadership, del temperamento e della passione per i tackle del Guv'nor Paul Ince. Aspirante giornalista sportivo, studio giornalismo all'Università "La Sapienza" di Roma. Calcio e Basket le linee guida dell'amore incondizionato verso lo sport, ossessionato dagli amarcord, dal vintage e dai Guerin Sportivo d'annata, vivo anche di musica rock e dei film di Cronenberg. Citazione preferita: "en mi barrio aprendí a no perder".