Genova e il derby: il fascino della “Superba”. Genoa e Sampdoria tra simboli, letteratura e storia

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“Umbre de muri, muri de mainé, dunde ne vegnì, duve l’è ch’ané”

Ombre di facce, facce di marinai. Da dove venite, dov’è che andate“. In quelle strade collinari e pendenti sono proprio loro, i marinai, a condividere il commercio portuale. Ammirano la Lanterna di San Giorgio, che domina sul mare e abbraccia la città, come se la proteggesse. Lo fanno tutti, a Genova: chi da levante, chi da ponente. Sotto un’unica religione gastronomica, tipicamente zeneize: il tocco del mortaio e l’inconfondibile profumo del pesto, inebriante, che si diffonde per i caruggi e si lascia andare fino al mare. Ma sacro e profano, in quel di Sampierdarena o Pegli, fa rima con derby. Fa rima con fazioni opposte, dai vessilli contrastanti: blucerchiato e rossoblù. La Genova operaia e la Genova borghese. Un dualismo socio-culturale e sportivo con pochi eguali in Italia e nel mondo. Il derby della Lanterna affascina i più, ipnotizzati da colori, luci e suoni che il “Luigi Ferraris” regala alla sua platea. Un pubblico dal palato fine, diviso da differenti stili di vita, simboli e culture. Sampdoria-Genoa, nient’altro: le sliding doors della storia passano dalla “Superba”

Miseria e Nobiltà: l’estrazione sociale del calcio genovese

Era il marzo del 1984. Fabrizio De André incantava la sua Genova e il mondo della musica d’autore con la coinvolgente melodia dell’album – e del singolo – “Creuza de ma“. Un viaggio tra realtà e magia, tra sogni e gloria. Eppure quei marinai, nel quartiere Marassi, si dividono da anni. Lo fanno dal 12 agosto 1946. Genova, reduce dai disastri della guerra, è finalmente libera. Si asciuga le lacrime, si cura le ferite e tenta di risalire la china. I disastri post-conflitto sono imponenti ma le basi su cui ripartire ci sono tutte. Il referendum istituzionale ha segnato il passaggio del testimone dalle grinfie della conservatrice Monarchia a quelle della più democratica Repubblica.

Il Re d’Italia (Umberto II di Savoia, l’ultimo della storia) venne sconfitto ma fu lo sport, ancora una volta, lo strumento di rivalsa sociale da cui ripartire. In città il calcio dominava in lungo e in largo dal 7 settembre 1893 quando un gruppo di inglesi (attivi sul mercato portuale e sulla scena politica internazionale) diede vita al Genoa Cricket and Athletic Club, dai colori rossoblù della maglia e dal grifone, simbolo della città. Inizialmente il calcio era escluso dalle attività dello statuto ma nel 1897 il giornalista, medico e filantropo Dottor Spensley diede lustro alla popolare disciplina modificando il nome della società in Genoa Cricket and Football Club.

Le stanze “made in England” di Via Palestro, allora sede del Consolato britannico, avviarono l’epopea del calcio non solo in Liguria ma in tutta Italia, fenomeno che si diffuse a macchia d’olio come fatto sociale totale (Émile Durkheim docet). Il grifone riuscì a issarsi per ben 9 volte sul tetto dell’Italia pallonara. Il Genoa era lo specchio dell’alta borghesia ligure, dei salotti lussuosi e snob al pari della Società Ginnastica Andrea Doria. La sezione calcistica di quest’ultima, per obblighi imposti dal regime fascista e desiderosa di rompere l’egemonia genoana, unì le forze con la più popolare Sampierdarenese, società sportiva la cui etimologia rimanda al quartiere genovese di Sampierdarena. Soprannominato “Manchester d’Italia” – per l’elevata concentrazione di stabilimenti industriali simili come numero e dislocazione alla città britannica – il quartiere fu il teatro della fusione tra Samp e Andrea Doria.

Il sodalizio ebbe durata triennale nel corso del ventennio fascista – sotto il nome de “La Dominante” – per poi ricongiungersi nel 1946 tra i tavoli del “Bar Roma”. Piazza Vittorio Veneto, tra una farinata di ceci e un bicchiere di Vermentino, fu il teatro in cui il 12 agosto del 1946 un nuovo sodalizio calcistico scrisse la storia della Genova sportiva: l’Unione Calcio Sampdoria. Il nome scelto – non con poca fatica dai fondatori del club – altro non fu se non la fusione dell’abbreviazione di una località geografica (Sampierdarena per l’appunto) con un cognome (Doria) diffuso in larga scala a Genova e in Liguria. Unica nel suo genere anche la divisa del neonato club, che ricalcava i motivi cromatici e storici dei club fondatori. La casacca della Sampierdarenese, dominata dal bianco con fascia rossonera ad altezza addome, si miscelò con l’uniforme dell’Andrea Doria, dai colori bianco e blu. Il risultato finale fu una maglia in maggioranza blu, spezzata nella sua parte centrale da una fascia orizzontale con la sequenza di colori blu-bianco-rosso-nero-bianco-blu. La guerra era ormai un incubo lontano.

Guerra che va, Derby che viene

Il cessate il fuoco del secondo conflitto mondiale, il Referendum istituzionale e la neonata rivalità tra Genoa e Sampdoria: Genova cambia marcia, si rialza, ritorna a vivere. Il primo derby ufficiale si disputò il 3 novembre del 1946 al quale assistette anche il neo Presidente della Repubblica Enrico De Nicola, presente a Genova per la Festa delle Forze Armate in programma il giorno successivo. I blucerchiati fecero subito bottino pieno: 3-0 il risultato finale della stracittadina a firma di Baldini, con un gol d’autore da trenta metri, e i sigilli di Frugali e Fiorini.

Il Baciccia e Charles Dickens: la Samp nella letteratura

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Genova vive di simboli. Legami indissolubili, radicati nella storia e nelle abitudini culturali del tifoso di Genoa o Samp. In particolare i blucerchiati, provenendo dalla piccola borghesia e dalle fatiche di una giornata di lavoro al vecchio porto, sono in simbiosi con la figura del marinaio. Dalla stagione 1980-1981, lo stemma della Sampdoria ospita un abituale frequentatore del porto, fumatore di pipa, con indosso il tipico berretto genovese e i capelli mossi dal vento. La figura stilizzata è stata ribattezzata dal tifo doriano con il nome Baciccia. La storia relativa all’etimologia del simbolo doriano per antonomasia lo colloca accanto alla pronuncia infantile di un nome tipicamente genovese: Giovanni Battista, comprese le sue molteplici varianti.

Tuttavia è la letteratura inglese a suggerirci una differente quanto curiosa chiave di lettura. Lo scrittore britannico Charles Dickens nella sua opera Impressioni italiane (Pictures in Italynella versione originale, ndr) narra la curiosità del suo soggiorno italiano e genovese del 1846. Genova lo affascina, lo travolge emotivamente. Il mare lo persuade, così come la curiosità per quel Baciccia urlato dai genovesi tra i cupi e umidi caruggi nelle giornate festive, non certamente per porgere alcun complimento:

Rispetto al legame di San Giovanni con la città, molte persone comuni sono state battezzate con il nome Giovanni Battista, il quale viene pronunciato nel dialetto genovese come se l’enunciatore stesse starnutendo. Sentire alcuni che chiamano gli altri Baciccia la domenica, nei giorni di festa o in mezzo alla folla per strada non è divertente per un estraneo

A confermare la tradizione storica del nome Baciccia ci pensano i libri di storia e il fenomeno di migrazione esterna che ha portato milioni di italiani alla ricerca di maggiori fortune lontano dall’Italia tra la fine dell’800 e i primi anni del ‘900. In tanti tentarono la carta della fortuna, migrando nell’America meridionale. Da Genova le partenze furono massicce e i territori preferiti furono, non a caso, Uruguay ma soprattutto Argentina. In lingua spagnola, ancora oggi, viene utilizzato l’appellativo Bachicha per indicare in maniera goliardica un immigrato di origine italiana. Il genovese viveva già dagli antipodi per il calcio tanto da importare lo sport più popolare della Superba nella pampa argentina.

A Buenos Aires è il quartiere La Boca ad essere invaso dai genovesi tanto che tra il 1901 e il 1905 vengono fondate rispettivamente il River Plate e soprattutto il Boca Juniors. I tifosi e i giocatori dell’equipo blu y amarillo sono conosciuti con l’appellativo di Xeneises (dalla translitterazione argentino-castellana del termine Zeneizes, che tradotto sta per genovesi).  L’origine italo-americana ha da sempre affascinato appassionati, semplici tifosi e addetti allo stemma sampdoriano. Quest’ultimo ha poi raccolto i consensi della critica sportiva mondiale per il suo mix cromatico, storico e di fascino. La rivista specializzata britannica FourFourTwo – in un articolo di approfondimento dedicato al legame club-stemmi – ha sottolineato l’immediata associazione dell’appassionato di calcio del Baciccia alla Sampdoria, così come della Lupa che allatta Romolo e Remo per lo stemma della Roma, del Liver Bird legato ai Reds del Liverpool e della Torre Eiffel parigina, simbolo del Paris Saint-Germain.

Il Genoa, il grifone e l’abbinamento rossoblù

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Il Vecchio Balordo e il Grifone, figura mitologica composta da parti di tre differenti animali – aquila, leone e cavallo – sono legati fin dagli albori del club rossoblù. L’adozione del Grifone come stemma del club e sulla maglia genoana fu una proposta avanzata da Aristide Parodi, socio del Genoa nonché ex portiere rossoblù e campione d’Italia nel 1900. L’idea fu quella di inserire nello stemma genoano il simbolo della città di Genova con due Grifoni a sostegno dello scudo entro il quale si erge la croce di San Giorgio. Era il 1910. Il Genoa, inglese di nascita, divenne a tutti gli effetti genovese. L’adozione del Grifone come stemma legò a doppio filo la società rossoblù con la città, radicandosi a livello sociale e culturale con la Genova bene, con il suo animo tipicamente borghese.

Tuttavia la decisione definitiva sullo stemma tardò ad arrivare. Nell’epoca pre ventennio fascista si scelse di adottare solo uno dei due grifoni dello stemma di Genova, inserendolo in uno scudo rossoblù dai bordi dorati e racchiuso nell’estremità dalla croce rossa di Genova. Si optò anche per la figura mitologica della Viverna, rampante verso sinistra (simbolo utilizzato qualche anno dopo dalla Ternana, ndr) fino all’utilizzo dello stemma che campeggia oggi sui colori rossoblù della maglia. Il Grifone fece il suo debutto sulle maglie genoane nel corso del campionato 1937/38, concluso dal Genoa – con la denominazione Genova 1893 imposta dal regime fascista – al terzo posto in coabitazione con il Milan. Inoltre non fu casuale nemmeno la scelta dei colori. Il rosso e il blu sono infatti simbolo di due mondi completamente opposti: il mondo terreno che si identifica nell’intensità cromatica del rosso, simboleggia il sangue; il mondo divino è invece rappresentato dal colore blu che denota l’immensità del cielo.

Il Genoa e Faber: un simbolo non scritto ma eterno

Era una malattia, la sua più grande malattia. Fabrizio De André viveva per il Genoa: da bambino abbelliva la sua camera con vessilli rossoblù fino agli screzi ad età avanzata con il fratello Mauro e il padre Giuseppe, tifosi granata. La genoanità di Faber emergeva anche dalla sua incapacità di dedicare al Vecchio Balordo canzoni, capolavori autentici che ritraessero il suo amore incondizionato verso i colori rossoblu. Troppo coinvolto emotivamente per poter scrivere strofe inneggianti il Grifone, De André seguiva il Genoa quasi come fosse una figlia: nei mesi del rapimento in Sardegna per mano della Anonima Sarda, si dispiacque più per la sconfitta del Genoa al “Libero Liberati” di Terni con la Ternana (0-3, il 7 ottobre 1979) ascoltata alla radio con solito contagioso trasporto che per la prigionia condivisa con la moglie, Dori Ghezzi. Un legame da tifoso vero, eterno. Talmente eterno da richiedere, qualche ora prima del decesso, la cremazione del corpo con la sciarpa rossoblù al collo. Aneddoti, simbologie arcaiche e recenti, vie, profumi. Perché Genova è differente. Perché a Genova, il derby, è differente.

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Pubblicato da Alessandro Fracassi

Nato in quel di Sassari nel 1992, cresciuto nel segno della leadership, del temperamento e della passione per i tackle del Guv'nor Paul Ince. Aspirante giornalista sportivo, studio giornalismo all'Università "La Sapienza" di Roma. Calcio e Basket le linee guida dell'amore incondizionato verso lo sport, ossessionato dagli amarcord, dal vintage e dai Guerin Sportivo d'annata, vivo anche di musica rock e dei film di Cronenberg. Citazione preferita: "en mi barrio aprendí a no perder".