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Mike Mitchell guarderà con un occhio di riguardo l’incrocio del Pala Germani tra Brescia e Reggio Emilia. Lo farà, che sia in un soffio di vento o nell’immensità di un cielo grande quanto i suoi 201 cm per 98 kg. Una grandezza umana e sportiva, una classe fuori da ogni logica terrena. Un talento che poteva solo unire. Nessuna divisione, nessuna barriera sociale: neanche quella della droga, che lo ha portato sull’orlo del baratro. L’America lo ha svezzato, lo ha perfezionato. L’Italia bresciana lo accolto, quella reggiana lo ha amato alla follia. Questioni di feeling, cantava Riccardo Cocciante nel 1985. Questioni di eroismo, ribatteva Mike. Sul parquet, nella quotidianità, ovunque. Mike Mitchell: un professore eroe.
The drugs don’t work
“The drugs don’t work – Le droghe non fanno effetto
They just make you worse – Ti rendono solo peggiore
But I know I’ll see your face again” – Ma so che rivedrò ancora una volta il tuo viso
Sulle note dei Verve, datate 1997, si racchiudeva la forza di Mitchell fuori dal parquet. Risucchiato in un mondo che per indole non gli apparteneva, Mike non riusciva a stoppare l’avversario più temibile. Cresciuto all’università di Auburn, in Alabama, dovette combattere per larghi tratti della sua carriera con la tossicodipendenza, complice un rapporto fin troppo stretto con la cocaina che lo porterà a mettere tutto in discussione.
“Comprare droga è come comprare un biglietto per un mondo fantastico, ma il prezzo di questo biglietto è la vita”. Jim Morrison, il frontman dei The Doors, sfiorò il baratro. Un biglietto di sola andata verso il nulla o il tutto. Lo stesso che Mike aveva in pugno. Mitchell raschiava l’apice del successo sportivo con le mani ma, con i piedi, veniva sempre più trascinato in un climax discendente dai contorni abissali, con la morte (esistenziale e di talento) sullo sfondo ad attenderlo
Sull’orlo dell’abisso
Marzo 1987. Mattina primaverile a San Antonio. Un cielo paradisiaco splendeva nel cielo texano. Mitchell viveva incatenato in un inferno interiore dal quale venirne fuori rasentava i confini dell’utopia. Nella mente di Mike scorrevano inesorabili le immagini di una vita a metà tra genio e sregolatezza. Di high career e di cadute rovinose. Buttare via tutto non era una scelta attribuibile a un uomo, ancor prima che atleta, dalle innumerevoli risorse. Quando sprofondare nell’oscurità era ormai il destino più probabile e ai titoli di coda, Mitchell scattò dal divano, lo stesso che fece da cornice al suo macabro rapporto con la cocaina. Uno scatto d’inerzia. Un jump pari all’orgoglio e alla dignità che non aveva intenzione di perdere. Come se stesse per depositare nella retina un alley-oop di divina provenienza. Al salto seguì la telefonata al numero di assistenza fornito dall’Nba ai professionisti in difficoltà.
Un professore. Sul parquet e non solo
3 soli minuti modificarono uno scenario oscuro: da una morte certa, Mitchell si ritrovò in Colorado in una clinica specializzata. Rimise in sesto vita e carriera. L’esperienza lo fortificò oltremodo, modellandone maturità e saggezza. Sollecitato dai vertici dell’Nba, s’imporrà poi come mentore dei rookies. Guiderà i giocatori alle prime armi nel processo di crescita professionale e nelle insidie che l’eldorado della palla a spicchi americana può mettere davanti. Modificando le scelte, le percezioni. Non si può essere grandi giocatori se prima non si è uomini di spessore.
Un talento in campo e nella vita: qualità che lo elevarono a “The teacher”, il professore. Un appellativo che molto racconta di una vita rimessa in piedi. Per sé stesso e per gli altri. Una bilancia morale che pendeva sempre verso gli altri: Mitchell dedicherà il suo tempo post-congedo dal basket giocato alla N.I.S.E.R.R., azienda dedita a sconfiggere il mostro della tossicodipendenza. L’unica battaglia che lo vide soccombere fu il male incurabile che fece calare il sipario a un uomo orgogliosamente americano quanto attratto dall’Italia.
Mitchell sbarca in Italia…
Estate 1988. Sulle stazioni radiofoniche nostrane “Heaven is a place on heart” trascinò con sé tutta l’ondata di entusiasmo di un decennio, quello degli anni ’80, dominato da mode e stili tra il variegato e l’appariscente. Eppure Belinda Carlisle, producer del pezzo, non poteva di certo sapere che l’eden cestistico sulla terra (Nba a parte) era colorato di biancorosso e si stabiliva a Milano. L’Olimpia di coach Franco Casalini aveva appena messo le mani sulla sua terza coppa dei campioni. Sconfitta la corazzata Maccabi Tel Aviv dell’ex Ken Barlow, i campioni d’Europa puntarono decisi al back-to-back continentale. Sotto le plance, Rickey Brown lasciava Milano direzione Malaga, sostituito da due ali piccoli di discrete qualità. Bill Martin, giovane talento vicino alla post season con i Suns e Mike Mitchell, veterano degli Spurs eliminato al primo turno dei playoff dai Lakers di Magic Johnson con uno sweep che non ammise repliche.
…per caso
Tony Cappellari, storico general manager meneghino, si trovò ad un bivio: la freschezza di un ventiseienne o l’usato sicuro di un trentaduenne per confermare la dittatura in Europa? Gioventù ribelle non fu solo una pellicola cinematografica del 1956 ma anche la scelta dei vertici societari dell’Olimpia. La luna di miele milanese tra Martin e Piazza Duomo ebbe durata esigua, sostituito a stagione in corso da Albert King. Seguito dall’agente Federico Buffa, uno storyteller niente male anni dopo, Mike venne proposto a Brescia militante in A2: il palcoscenico ideale per la pensione dorata di un giocatore ex Nba di 36 primavere. L’accordo tra le parti venne trovato in una notte di giugno del 1988, all’hotel Sigma di Cantù. I cavilli del contratto vennero letti da Buffa con la sua celebre meticolosità per telefono, proprio nei momenti in cui Mike dagli USA smontava baracche e burattini per raggiungere il Bel Paese.
Un professionista in prova
Il debutto di Mike in maglia Filodoro Brescia fu un unicum nella storia della pallacanestro nostrana. Un giocatore con un’esperienza sopra le righe in Nba, 15ma scelta del Draft 1978 (lo stesso che avviò la carriera a un tale Larry Bird), più di 10.000 punti tra regular season e playoff, arrivò a Brescia in prova. Un apprendistato, in seconda serie, per un giocatore di così alta caratura avrebbe portato qualsiasi altro professionista a salutare tutti, sbattendo la porta. Mitchell si adeguò, non proferì parola. Si mise a disposizione di compagni e coach, quel Virgilio Bernardi che lo adottò quasi come se fosse sangue del suo sangue. A complicare un quadro inverosimile, a metà tra la commedia e il dramma, fu una partita amichevole che Brescia giocò a Cantù, contro l’Arese di coach Luigi Bergamaschi.
Mitchell era spento, abulico. Poche trame offensive, un disastro a rimbalzo. Perse ogni scontro di gioco. Giocò tutto il match, mettendo a referto la miseria di 2 punti. Il silenzio del Pianella di Cucciago fece da contorno ai continui sguardi tra Bernardi e Buffa. Il taglio sembrava lo scenario più consono a una storia pronta a morire sul nascere. La partita si concluse, Mike prese mestamente la strada degli spogliatoi imprecando contro sé stesso. Buffa, in punta di piedi, raggiunse Bernardi con una sicurezza da veterano. Gli disse che “Mike d’ora in poi farà sempre canestro”. Il coach annuì. Il destino era pronto a scrivere una nuova trama di vita e sul parquet.
L’eden tricolore di Mike
Assaporata l’atmosfera di Napoli e l’inferno sportivo di Tel Aviv (con il Maccabi fu scudetto) Mitchell visse l’esperienza israeliana intriso di nostalgia tricolore. L’assist, per il coming back tricolore, stavolta non lo sfornò lui in prima persona ma Virgilio Bernardi, neo coach della Sidis Reggiana. Il coach casertano volle Mitchell a tutti i costi. Per convincere il presidente biancorosso di allora, Enrico Prandi, Bernardi gli fece visionare un vhs con le opere d’arte dell’ala piccola sul parquet israeliano. Il gm biancorosso, Mario Ghiacci, venne tempestato dalle telefonate di Bernardi. “Se si vuole ritornare in A1 serve l’esperienza di Mike”. La Reggiana accettò, Mike arrivò in città. Calma olimpionica, passeggiata a stento tipica degli afro americani.
L’amore incondizionato tra Mike Mitchell e la pallacanestro Reggiana nacque quando il giocatore dovette mettere nero su bianco sul contratto. Entrò con nonchalance nella sede dell’allora Sidis, notando con stupore la gigantografia di un’ala “discreta”: tale Bob Morse, da Philadelphia. Era il 1992. Le cronache dell’epoca raccontano che chiese innanzitutto chi fosse il giocatore da meritare una foto enorme all’ingresso della sede del club – con grande stupore dei presenti – ed esclamò, fugati i dubbi, senza giri di parole: la mia gigantografia sarà più grande. A distanza di anni, nella nuova sede della Pallacanestro Reggiana, è proprio la gigantografia di Mitchell a dominare la scena. Così grande da spodestare un mostro sacro come Morse.
Klimt è biancorosso
L’amore sconfinato tra Mitchell e Reggio Emilia si poteva raffigurare artisticamente nel bacio di Gustave Klimt. Un amore immerso negli attimi in cui Mike, in terzo tempo, disegnava traiettorie all’insegna dell’iperuranio platonico. Oltre il mondo terreno, oltre le sfere celesti. Ganci nel pitturato che spodestano le leggi della fisica. Senza alcun confine. Il tempo si ferma. Lo spazio no, è sempre quello. Il PalaBigi assisteva impotente ai suoi high career reggiani. Lo poteva solo osannare.
Gli avversari invece potevano solo raccogliersi in preghiera e aspettare che la tempesta di shakespeariana etichetta arrestasse il suo istinto omicida. 14 marzo 1993: 51 punti contro Forlì. 3 dicembre 1995: 51 punti con la Floor Padova. Capocannoniere nel 1996, semifinalista nei playoff l’anno successivo quando Milano con lo scudetto sul petto dovette abdicare e cedere il passo tricolore ad altri. Reggio Emilia si fermò in semifinale, sul più bello. La Fortitudo Bologna di Carlton Myers staccò il pass per l’ultimo atto del playoff ma lo fece con facilità. Mike out, un problema alla spalla lo mise fuori gioco. Chissà come sarebbe andata con lui in campo. Ma il referto, quando si tratta di concedere freddi numeri, non mente. La classe neanche.
Nemmeno l’amore di un popolo può mentire. Febbraio 2001. Il PalaBigi è ai suoi piedi. O meglio, alle sue mani, dai tendini dorati. È il Mitchell-day. Il congedo definitivo alla palla a spicchi, alla Reggiana. Un addio organizzato, come si conviene, solo ai più grandi. Solo agli eroi. Come cantava Vasco Rossi, proprio nel 2001, fu standing ovation.