Scudetto ed Europa: le imprese del Banco Roma di Wright e Bianchini

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Roma, Piazza del Popolo. 30 marzo 1984. Le luci della gloria si erano spente da qualche ora, lasciando mestamente il posto alle impressioni, riflessioni e alla pagina di epica applicata allo sport, scolpita nella notte di Ginevra. Erano rimasti solo loro due: gli artefici di un miracolo sportivo senza eguali nella storia dello sport capitolino. La bottiglia del Chianti classico, rosso “Monte Maggio” d’annata, era agli sgoccioli. Valerio Bianchini da una parte, Larry Wright dall’altra.

“Coach, un anno dopo siamo ancora qui”, affermò con fierezza il folletto della Louisiana, navigando tra i ricordi del tricolore del Banco Roma dell’aprile 1983. “Anche stavolta l’anello ti ha ispirato, immagino…” replicò il coach lombardo. “Eccome, l’ho tenuto sul comodino durante il ritiro a Ginevra. Prima di lasciare l’albergo e raggiungere il Patinoire de Vernets, l’ho baciato e ho ripensato allo scudetto. Non potevamo non vincere”.

Bianchini lo guardò commosso, si alzò dal tavolo e gli disse: “Non adagiarti però, Larry. Per l’Intercontinentale mi aspetto lo stesso rito. Ora Riposati e posa quel bicchiere, domani a Torino dobbiamo vincere”. Con la Berloni arriverà una sconfitta ma tutte le attenzioni erano altrove, al Banco campione d’Europa. Per la prima volta nella storia, una squadra esordiente nella competizione per club più prestigiosa, mise le mani sulla coppa dei campioni. Un’impresa clamorosa, una delle più incredibili nella storia del basket italiano. Il Banco scudettato di Bianchini, Wright e un blocco di giocatori italiani e romani votati più al sacrificio collettivo che a egoismi o vizi temporanei, sorprese il Vecchio Continente e le più quotate avversarie da underdog. Un successo sportivo che, a distanza di 35 primavere, ricalca echi sociali e culturali di rilievo ai quali si aggiungono parallelismi filo-calciofili che segnarono inevitabilmente un’epoca nello sport capitolino.

Caro sponsor ti scrivo, così mi arricchisco un po’…

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Il celebre proverbio “Roma non è stata costruita in un giorno” si cuce su misura all’abito del miracolo sportivo targato Banco. L’esponenziale crescita del club, dalla A2 all’eldorado della Serie A, non sarebbe stata tale senza l’abnegazione e il sacrificio del collettivo oltre a una gestione manageriale dalle radici solide. Frutto di una gestione societaria oculata sotto la regia del presidente Eliseo Timò, i giallorossi capitolini divennero un club dai crismi aziendali. La sponsorizzazione del credito romano fu il continuum di un binomio, quello tra sponsor e pallacanestro, che seguì la linea imprenditoriale introdotta dalle big del basket italiano ed europeo, il triumvirato Milano-Cantù-Varese. Sponsor = introiti = ingaggi di nomi altisonanti = successi. La formula “a cascata” venne lanciata negli anni del “Boom Economico” dalle tre corazzate del nord. Una legge del più forte imposta non solo sul parquet ma soprattutto in chiave commerciale.

Se i trionfi di Varese si legavano indissolubilmente alla Ignis – azienda leader di elettrodomestici del patron Giovanni Borghi, che associava le sue fortune imprenditoriali alle magie sul pitturato di Bob Morsel’Olimpia Milano divenne celebre con Superga prima e Simmenthal poi. I meneghini diedero genesi al mito delle “scarpette rosse”, replicando poi la fruttuosa collaborazione con la carne in scatola. Anche i gruppi bancari fecero il loro ingresso nel mondo della pallacanestro: nell’estate del 1972 i vertici del Banco di Roma, in cerca di maggiore visibilità, sottoscrissero un accordo di sponsorizzazione con il club. La gloria sul parquet passava da una maniacale programmazione dietro la scrivania: dopo la Ignis Varese e la Simmenthal Milano, il Banco Roma fu il caso più riuscito di cannibalismo pubblicitario, ovvero quel fenomeno del marketing in cui il club “interiorizza” lo sponsor e quest’ultimo perde la sua identità acquisendo, in toto, quella sportiva che rappresenta.

Valerio Bianchini e Larry Wright: il binomio dei sogni capitolini

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Nell’estate del 1982 le attenzioni degli sportivi vertevano sul Mundial in Spagna: le imprese dell’Italia di Enzo Bearzot entusiasmavano, contro ogni pronostico. Nell’ecosistema cestistico, insistenti rumors dominavano la scena e viaggiavano da Cantù a Roma, pronti a modificare le gerarchie della pallacanestro italiana. Valerio Bianchini, il gotha dei coach italiani, era in rotta con la Squibb. Il ciclo canturino era in fase calante e Bianchini, consapevole di aver lasciato ogni goccia di sudore in Brianza, era pronto per una nuova sfida. La più difficile, la più affascinante: “Bianchini è il nuovo allenatore del Banco Roma”. Le poche righe del comunicato, diffuso dalle agenzie di stampa in un torrido pomeriggio del luglio del 1982, mutarono gli scenari e le ambizioni capitoline. Roma e l’Italia intera vennero però travolte dall’estasi per la coppa del mondo conquistata a Madrid sulla Germania Ovest.

L’euforia sembrava contagiare tutti tranne Bianchini, in volo verso gli States. In agenda, camp estivi e colloqui con stelle Nba decadenti in cerca di rivalsa. A New York nacque la sua nuova creatura che doveva coincidere con il concetto di praticità. Il Vate ripropose il progetto tattico che fece le fortune di Cantù con la leggenda Marzorati: un playmaker in grado di spaccare in due le partite, devastante al tiro pesante e immarcabile. Il sogno di Bianchini si chiamava Larry Wright: sei stagioni Nba alle spalle, un titolo conquistato nel 1978 con i Washington Bullets e una parentesi a Detroit. Una chiacchierata a Monroe, in Louisiana, fu l’inizio dell’avventura italiana per Wright. La stampa italiana saluterà l’ingaggio del Banco con l’epiteto “folletto nero”. Quel che accadrà nei mesi successivi, andrà oltre l’immaginazione degli addetti ai lavori.

Sacrificio e voglia di lottare: i protagonisti del Banco ’83-’84

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Avere nomi altisonanti è senza dubbio una componente importante per imboccare la strada del successo. Ma priva della chimica di gruppo, una squadra si limita ad essere un insieme di solisti che viaggiano a corrente alternata: prestazioni esaltanti unite a rovinose cadute. Il Banco del Vate Bianchini fu un collettivo che andò velocissimo, imparando ad andare piano. Superando uno dopo l’altro step di crescita inevitabili per chi aspira alla gloria sportiva, il blocco italiano coniugava l’esperienza del capitano Fulvio Polesello (indimenticabili i ganci con i quali concludeva le azioni offensive) alla spensieratezza del giovane Stefano Sbarra. La leadership del gruppo era affidata all’ala Enrico Gilardi che dispensava intelligenza tattica sul parquet oltre al lavoro “sporco”, affidato al duo Solfrini-Tombolato. I due americani completavano il roster: l’immarcabile e devastante play Larry Wright divenne, con giocate di altissimo livello, uno dei giocatori più celebri d’Europa; Clarence Kea, secondo la visione cestistica di Bianchini, fu invece il primo pivot in grado di far vedere i sorci verdi a Dino Meneghin.

Scudetto ’83: Milano abdica, Roma è sul trono d’Italia

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Il tricolore, dal dopoguerra fino ai primi anni ’80, conosceva fissa dimora: non oltrepassava i confini del quadrilatero Milano-Varese-Cantù-Bologna (sponda Virtus). L’Olimpia è la 25° squadra dell’Nba (modestia dilagante nelle parole di coach Dan Peterson anche se era difficile dargli torto) Cantù era campione d’Europa in carica e l’onnipotenza dei due squadroni lasciava presagire un dominio dilagante, destinato a proseguire per anni. Bianchini, da navigato stratega, non si lasciò intimorire: il Banco chiuse la regular season in testa al campionato ma lo fece tra l’indifferenza generale. L’ardore giallorosso, secondo i volubili umori cittadini, era destinato a spegnersi inondato dall’urto milanese o canturino. I playoff raccontarono però una storia ben diversa: caddero una dopo l’altra Gorizia, eliminata ai quarti con un secco 2-0, e Cantù in semifinale dopo una storica vittoria al Pianella in gara-2.

La resa dei conti fu un affaire tra il Banco e il Billy Milano. L’incrocio tra la capitale politica e quella economica registrò uno share televisivo clamoroso, un PalaEur effetto bolgia e una telecronaca in diretta Rai con un Aldo Giordani in grande spolvero. Gara-1 visse all’insegna di un equilibrio mai in discussione con il Banco che la spuntò nel finale con Wright sugli scudi. Nel secondo match Milano ristabilì l’equilibrio ma nell’ultimo atto, con un PalaEur gremito in ogni ordine di posto (le cronache dell’epoca parlano di 17.000 spettatori presenti, di cui 15.000 paganti), il Banco mandò in visibilio Roma. Il 97-83 finale fu un trionfo. Significò scudetto (il primo della storia) significò festa collettiva in una città spaccata in due dal calcio ma unita dal tripudio collettivo nella pallacanestro, significò approdo in diretto in coppa dei campioni.

Ginevra 1984: l’urlo “Banco!” scuote l’Europa

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Il capo, chino, di Polesello alla conclusione del primo periodo di gioco, la disse lunga sui destini europei del Banco. La finale si tinse sempre più di blaugrana: il Barcellona dell’ex Mike Davis intravedeva la strada verso la coppa dei campioni. Un vantaggio di 10 lunghezze, quello da amministrare nei secondi 20’ di gioco, che lasciava sereni San Epifanio (autentico incubo per la Virtus) & co. La serata negativa fu fotografata da Larry Wright, inconcludente e abulico nel primo periodo. All’intervallo lungo il play imprecava contro sé stesso sbraitando, dimenandosi e pronunciando concetti incomprensibili in un dialetto altrettanto indecifrabile. Lo spogliatoio, in un primo momento affranto, ebbe uno scatto d’orgoglio e la delusione di Wright diede la giusta carica al gruppo.

Il gap di fisicità e di centimetri nel pitturato, sofferti nei 20’ iniziali, si annullarono nella ripresa. La riscossa capitolina partì proprio dagli occhi da tigre di Larry: la ferocia del play statunitense con conclusioni da antologia, assist per i compagni e contropiedi mortiferi, condusse fino alla svolta del match. Minuto 30 e 53 secondi: Wright infilò il canestro del -1 e poco dopo, in contropiede, l’appoggio che valse il sorpasso. Tra tentativi di fuga smorzati sul nascere e propositi di nuova rimonta, il momento chiave della finale si ebbe con Stefano Sbarra dalla lunetta. Il pallone scottava. Sbarra si dimostrò glaciale a cronometro fermo: due su due. Tifosi col fiato sospeso, sguardo al tabellone: +6, a 11 secondi dalla sirena. Il Barcellona tentò l’ultimo disperato assalto ma il pallone s’infranse contro le mani-saracinesca targate Kea. L’invasione di campo e l’alzata di coppa di Polesello sancirono il trionfo capitolino.

Wright e Falcao. Destini incrociati, finali opposti

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L’eldorado dell’apoteosi sportiva. Tra il 1983 e il 1984, Roma guardò tutti dall’alto. Valerio Bianchini e Nils Liedholm dominarono l’Italia e l’Europa, guidati da due direttori d’orchestra oltreoceano: Wright e Falcao. Un binomio di qualità, classe ed eleganza che tramutò in realtà i sogni capitolini. Entrambi costruttori di gioco, i due fuoriclasse spiccarono per un rapporto d’amore viscerale con la città e prestazioni da urlo. Il folletto americano condusse il Banco al doppio successo nazionale e continentale con performance sontuose e da standing ovation. Per Paulo Roberto Falcao parla ancora oggi l’epiteto con il quale i tifosi giallorossi sono soliti ricordare le gesta del numero 5 giallorosso: “l’ottavo re di Roma”, nato nel pomeriggio del 13 marzo 1983, quando all’Arena Garibaldi di Pisa il gol di testa del brasiliano, avvicinò la Roma al secondo scudetto della sua storia.

Votati entrambi alla costruzione del gioco, Wright e Falcao spiccavano rispettivamente per le parabole paradisiache e gli inserimenti senza palla. Se il folletto Usa riusciva a vincere le partite in solitaria con conclusioni mortifere e chirurgiche, il regista carioca eludeva la marcatura del centrale avversario attaccando il secondo palo, con conseguente gita festosa sotto la curva sud. Un dualismo di trionfi, quello capitolino, che divenne realtà concreta solo in ambito nazionale. Falcao sfiorò per un soffio la coppa dei campioni all’Olimpico in quel 30 maggio 1984, due mesi dopo la nottata in Piazza del Popolo di Bianchini e Wright. Solo la lotteria dei rigori impedì al brasiliano e a Liedholm di replicare il brindisi del duo cestistico, oltre all’ingresso nella leggenda.

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Pubblicato da Alessandro Fracassi

Nato in quel di Sassari nel 1992, cresciuto nel segno della leadership, del temperamento e della passione per i tackle del Guv'nor Paul Ince. Aspirante giornalista sportivo, studio giornalismo all'Università "La Sapienza" di Roma. Calcio e Basket le linee guida dell'amore incondizionato verso lo sport, ossessionato dagli amarcord, dal vintage e dai Guerin Sportivo d'annata, vivo anche di musica rock e dei film di Cronenberg. Citazione preferita: "en mi barrio aprendí a no perder".