Zvezda-Napoli: il ritorno della Stella Rossa nell’Europa dei grandi

approfondimento su Zvedza

Tempo di lettura: 13 min

Il silenzio assordante dello stadio. Il battito accelerato dei giocatori della Zvezda domina la scena. C’è chi prega; altri preferiscono non guardare, in campo e sugli spalti. Palla in mano o tra i piedi, scorrono i secondi, non hai altra scelta. 3, 2, 1… Segni, hai il mondo ai tuoi piedi. Apoteosi al potere, volti e luoghi che si tingono di leggenda. Non c’è più posto per la paura del fallimento, per lo sconforto.

Possiamo essere eroi, anche per un solo giorno. David Bowie ce lo insegnò, nel lontano 1977. Noi abbiamo raccolto il suo credo. Alessandro Fracassi vi prende per mano. Chiudete gli occhi: vi portiamo nel mito. Una full immersion di sport, musica e cultura. Di date da ricordare, di ricordi da rievocare. Ma anche di maglie da indossare, idealmente, con voi. Di partite da rivivere interamente, con voi. Giorni da Occhio Sportivo, giorni da Heroes. La nostra nuova rubrica vi racconta, oggi, le vicende della Zvezda, la Stella Rossa Belgrado.

Stella Rossa-Napoli: welcome back Zvezda! 

27 anni di assenza per la Zvezda. Poco meno di un trentennio. Un’attesa spasmodica, un’attesa unica. Tanto, troppo per una città di tale calibro. Belgrado ritorna ad assaporare emozioni e sensazioni che solo l’élite del calcio europeo può regalare. Il tutto dopo anni di fallimenti sportivi e politici. Dopo anni di regimi repressivi. Dopo anni in cui la Belgrado biancorossa ha vivacchiato nell’ombra. È arrivato il momento del coming back. Per la Stella Rossa, il debutto è alle porte: il Napoli di Carlo Ancelotti sul palco, la bolgia del Marakana in platea. La Zvezda, come la chiamano i tifosi dell’est Europa, riporta Belgrado e la Serbia nel teatro dei sogni, quello della Champions League.

Le sliding doors che legano lo sport e la storia sono sempre state infinite. Sembrano quasi compiere dei viaggi senza meta per poi, improvvisamente, riproporsi contro ogni previsione. La Stella Rossa Belgrado, dopo aver quasi perso le speranze di accadere alla fase a gironi della Champions League, imbocca la scalinata verso il paradiso calcistico. Il pareggio, per 2-2 a Salisburgo, qualifica la Zvezda alla fase a gironi. Ancora una volta è un 2-2 a disegnare destino e storia del sodalizio belgradese, sull’orlo dell’abisso sportivo. Memore del mito che, i biancorossi, hanno costruito con un undici da sogno una notte di aprile del 1991. Storie di calcio, storie di vita e di sofferenze belliche, storie di eroi.  Di veri eroi.

Se la Stella Rossa scaccia le nubi, la Jugoslavia vive il suo temporale nazionalista

Belgrado, 24 aprile 1991. Ore 21:58 circa. Semifinale di ritorno di coppa dei campioni. La Stella Rossa trema: il Bayern Monaco conduce per 2-1. Una pennellata su un calcio di punizione chirurgico di Sinisa Mihajlovic aveva illuso tutti. Non Augenthaler e Bender che, in 4 minuti, ribaltano il match e disegnano nuovi scenari a tinte teutoniche. Il Bayern dà l’impressione di voler chiudere la pratica jugoslava nei tempi regolamentari. Nel match di andata all’Olympiastadion di Monaco, la Zvezda aveva fatto saltare il bunker bavarese: 2-1 a domicilio, Darko Pancev e Dejan Savicevic sugli scudi. Sembra allontanarsi il sogno della finale di Bari per il talentuoso sodalizio del condottiero Ljupko Petrovic. Ogni speranza è affidata ai minuti di recupero. 3 minuti. 3 soli minuti per dare un calcio alla storia.

Dva-dva! Gol gol gol…Nebo se otvorilo, stadion je eksplodirao!”. “2-2, gol gol gol…il cielo si è aperto, lo stadio è esploso!”. Il tremolio del Marakana risuona nelle vicinanze dell’impianto. Roba da far rabbrividire anche la scala Richter. La voce rotta di gioia per l’emozione è quella di Milojko Pantic, telecronista di Radio Televizija Beograd. La Zvezda pareggia con un’autorete di Klaus Augenthaler, staccando il pass per la finale di Bari. Dietro l’impresa si cela ben altro. L’esultanza di Pantic travalica i confini della rigidità imposta ai mezzi di informazione da Slobodan Milosevic, il “macellaio dei Balcani” nonché leader del partito socialista serbo. A maggior ragione se si tratta di una squadra composta al suo interno da una molteplicità di etnie. L’idea di riunire in un unico grande Stato serbo tutte le etnie radicate nei Balcani nel progetto della “Grande Serbia”, è l’infausto preludio di una guerra cruenta, lacerante.

Lo stadio Marakana ribolle di…guerra

Il 24 aprile 1991 è anche la data dell’ultimo grande match in coppa dei campioni disputato dalla Stella Rossa tra le mura amiche. Da quel momento il “Rajko Mitic” perse la sua connotazione unicamente sportiva, trasformandosi in luogo di culto pallonaro interamente dedicato al reclutamento e all’addestramento militare. Le attività extra-calcio iniziarono già due anni prima, il 26 febbraio 1989. Il criminale Zeljko Raznatovic (conosciuto in Europa con il nome di Arkan) in collaborazione con Slobodan Milosevic, selezionò dal tifo organizzato della Zvezda, i “Delije” (gli eroi) i profili migliori per l’esercito. Croazia e Bosnia, in questo modo, furono messe in guardia e avvisate con anticipo. I loro propositi di indipendenza da Belgrado non sarebbero stati così morbidi come immaginavano. L’inizio della fine era ad un passo.

Surreale fu anche l’atmosfera che dominò il confronto con i campioni belgi dell’Anderlecht, in coppa dei campioni, nel dicembre del 1991: stadio semi-deserto, termometro sotto lo zero protagonista e nessuna voglia di celebrare la vittoria per 3-2, firmata da Darko Pancev. Una cornice insolita per un match di così elevata caratura europea.

Belgrado intanto si tinse sempre di più come un teatro di guerra. La Zvezda migrò a Sofia. In Bulgaria sfiorò la seconda finale di coppa dei campioni della sua storia. Fu la Sampdoria di Vujadin Boskov a mettere la parola fine al sogno-doppietta continentale. Di lì a poco la Stella Rossa e la Jugoslavia conobbero lo stesso triste destino, ovvero la dissoluzione. Il club, nell’estate del 1992, perse tutti i suoi giocatori più talentuosi e rappresentativi. Il paese invece, ormai con l’acqua alla gola, visse l’assedio di Sarajevo, protrattosi fino al 1995. Una delle pagine più nere delle guerre balcaniche.

La guerra inizia sul campo

Something is changing inside you,

and don’t you know”.

I Guns N’ Roses scalavano la hit parade con il singolo “Don’t cry”. Il successo dell’album Use your illusion nella sua duplice versione, fotografava lo stato comatoso nel quale la Jugoslavia vivacchiava. “Qualcosa sta cambiando dentro di te, ma tu non lo sai”, cantava Axl Rose. Parole visionarie. Indicative. Di pari passo con lo stato d’animo di un paese che si è perso per strada, privo di identità. Oltremodo lontani i tempi del tormentone che dominava la Jugoslavia, da Sarajevo a Belgrado. Le parole sono quelle di Josip Broz Tito, il quale teorizzò l’unità etnica: “Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito”. Un ritornello ripetuto in ogni situazione avversa. Il simbolo incontrastato dei sentimenti comuni di unità e fratellanza (“Bratstvo i Jedinstvo”) che garantivano a ogni minoranza radicata nel paese un elevato grado di autonomia decisionale ma soprattutto una massiccia dose di dignità.

Il documento della svolta 

Furono due i fatti che aprirono una voragine nel destino jugoslavo. Il primo è contenuto in un calderone di carta e odio. Il Memorandum SANU, un documento prodotto da alcuni intellettuali serbi dell’accademia delle scienze e delle arti di Belgrado, a cavallo tra il 1985 e il 1986.  Il documento sottolineava i propositi della Serbia, che rivendicava la piena sovranità territoriale, auspicava la cancellazione definitiva delle due province autonome interne al paese (Kosovo e Vojvodina) e invocava l’instaurazione della totale integrità nazionale, oltre che culturale, serba. Una bozza di progetto poi ripresa in toto da Slobodan Milosevic con la frase, ormai celebre, pronunciata nel 1987 a Kosovo Polje:  “nessuno vi picchierà mai più!”, “Niko ne sme da vas bije!“.

13 maggio 1990

Il secondo vide protagonisti i tifosi della Zvezda. I “Delije”si resero protagonisti degli scontri dello stadio “Maksimir”del 1990, tempio calciofilo della Dinamo Zagabria. Il match, mai giocato, tra Dinamo e Zvezda si disputò il 13 maggio. Solo 6 giorni prima l’unione democratica croata del leader nazionalista Franjo Tudman vinceva le prime elezioni democratiche. Arkan e i “Delije” inveirono contro i tifosi locali, mettendo a ferro e fuoco l’impianto. La reazione dei Bad Blue Boys, tifo organizzato della Dinamo, fu immediata.  L’invasione di campo croata venne placata dalle forze di polizia filo-serbe che caricarono contro il tifo locale. Fu il caos. L’immagine-simbolo appartiene di diritto al fuoriclasse Zvonimir Zorro Boban, intento a rifilare un calcio a un poliziotto in difesa di un tifoso croato. Un Sunday bloody Sunday stonato, imparagonabile a quello cantato da Bono Vox e dagli U2.

Il mito “Zvezda”, una squadra tanto diversa quanto uguale

L’impresa della Stella Rossa rappresenta ancora oggi, a livello socio-politico, un unicum nella storia del calcio europeo e mondiale. La Zvezda era (ed è) la squadra per antonomasia, nonché la più tifata nei Balcani. I biancorossi rappresentano un vero e proprio stile di vita basato sul non mollare mai, nemmeno nelle situazioni più avverse. Un tout court tra giocatori, vertici del club e tifo: un triplice filo indissolubile. La coppa dei campioni vinta a Bari ed esposta in una teca vetrata nel museo del Marakana, assunse ancor di più i contorni del miracolo costruito step by step dai giocatori jugoslavi. Apparentemente diversi. Profondamente simili.

Ribattezzata “kluba generazija”, la generazione della Zvezda era composta da giocatori di differente etichetta socio-culturale oltre che linguistica. Un melting pot calcistico costituito dal centrale Ilija Najdovski e “il cobra” Darko Pancev di origine macedone. Inoltre, il nucleo bosniaco formato da Goran Juric, Milorad Ratkovic e Refik Sabanadzovic e il fuoriclasse croato Robert Prosinecki andavano a completare una squadra che univa esperienza e fisicità ma anche freschezza e imprevedibilità. Quest’ultima, faceva rima con Dejan Savicevic. Giocatore sopra le righe, un’artista del pallone. Montenegrino fino al midollo, Dejan incantò il Marakana con giocate di alta scuola. Perché a Belgrado la delizia calcistica è di casa.

Miodrag Belodedici, l’eroe simbolo della Zvezda

Simbolo multietnico della Zvezda era il libero Miodrag Belodedici. Nazionale rumeno degli anni ’80 ma soprattutto giocatore imprescindibile nella Steaua Bucarest campione d’Europa 1986, Belodedici è stato il primo giocatore impiegato da regista arretrato. Un playmaker dalla grande visione di gioco. Un mix di qualità e duttilità che però, nonostante il talento, gli impedì di condurre una vita privata all’insegna della tranquillità. L’oppressivo regime del leader comunista rumeno Nicolae Ceauscescu lo prese di mira per le origini slave, lontane dall’idea di identità rumena. Scappò in Jugoslavia, legandosi alla Zvezda nel dicembre del 1988. La Steaua Bucarest, stizzita dall’atteggiamento poco professionale del giocatore, occultò il suo contratto con il club di Belgrado. La Uefa squalificò il giocatore per un anno. 12 mesi di pausa decisivi: la squalifica permise al centrale rumeno di affinare l’intesa con il gruppo, divenuto poi una famiglia. La storia era pronta per essere scritta, ancora una volta.

Propositi di rinascita

La Zvezda entrò nel mito calcistico mettendo idealmente le mani sull’Europa ma perdendo la presa dalle sue radici, dai suoi luoghi. Sono passati gli anni ma la Zvezda è cambiata radicalmente. Il club fa il vuoto dietro di sé in Serbia ma ha perso definitivamente l’identità delle notti europee. Percorso identico per le 6 repubbliche che, un tempo, rappresentavano l’unità nazionale. Negli uomini, negli obiettivi, nelle percezioni altrui. Solo Belgrado è progressivamente diventata città europea, vicina a innovazioni, modernità, trasparenza. Nonostante la ricostruzione del paese sembri procedere a passo spedito, le cicatrici di quanto accaduto negli anni ’90 tardano a rimarginarsi.

Belgrado, a distanza di anni, è pronta a mettersi comoda. Ancora una volta. Ce la immaginiamo come se fosse una donna attempata. Diverse rughe sul volto, molteplici ferite sul cuore. Con gli occhi gonfi di lacrime, implorando il perdono per le innumerevoli vite umane andate in frantumi, là, tra le sue strade. Tra i suoi palazzi, i cui colori ancora oggi sembrano voler urlare al mondo un dolore mai sfogato e sistematicamente strozzato in gola. È pronta a godersi una notte europea indimenticabile, come quelle a cui era stata abituata un tempo. Lo farà, scrutando le eventuali nubi che domineranno il cielo del Marakana. Di qualsiasi natura esse siano, stavolta l’attenzione non potrà che essere maggiore. Nazionalismi permettendo.

Condividi:

Pubblicato da Alessandro Fracassi

Nato in quel di Sassari nel 1992, cresciuto nel segno della leadership, del temperamento e della passione per i tackle del Guv'nor Paul Ince. Aspirante giornalista sportivo, studio giornalismo all'Università "La Sapienza" di Roma. Calcio e Basket le linee guida dell'amore incondizionato verso lo sport, ossessionato dagli amarcord, dal vintage e dai Guerin Sportivo d'annata, vivo anche di musica rock e dei film di Cronenberg. Citazione preferita: "en mi barrio aprendí a no perder".